Capita, siamo lettori maturi e vaccinati e quindi sappiamo affrontare momenti come questo con dignità. Però cazzarola Adrian, questo non me lo dovevi fare!
THE CHAIN di Adrian McKinty
| Longanesi, 2019 | pag. 353 | € 19,50 |
"Mi chiamo Rachel Klein e fino a pochi minuti fa ero una madre qualunque, una donna qualunque. Ma adesso sono una vittima. Una criminale. Una rapitrice. È bastato un attimo: una telefonata, un numero occultato, poche parole. Abbiamo rapito tua figlia Kylie. Segui le istruzioni. E non spezzare la Catena, oppure tua figlia morirà. La voce di questa donna che non conosco mi dice che Kylie è sulla sua macchina, legata e imbavagliata, e per riaverla non sarà sufficiente pagare un riscatto. Non è così che funziona la Catena. Devo anche trovare un altro bambino da rapire. Come ha fatto lei, la donna con cui sto parlando: una madre disperata, come me. Ha rapito Kylie per salvare suo figlio. E se io non obbedisco agli ordini, suo figlio morirà. Ho solo ventiquattro ore di tempo per fare l'impensabile. Per fare a qualcun altro ciò che è stato fatto a me: togliermi il bene più prezioso, farmi precipitare in un abisso di angoscia, un labirinto di terrore da cui uscirò soltanto compiendo qualcosa di efferato. Io non sono così, non ho mai fatto niente di male nella mia vita. Ma non ho scelta. Se voglio salvare Kylie, devo perdere me stessa...".
Voto:
No, no, nooo, nooooo e ancora NO!
Non importa da quale prospettiva guardi questo libro, perché non ce n'è una che funzioni. Salvo giusto l'idea, geniale, tutto il resto per me è fuffa, mi meraviglio solo che l'autore abbia all'attivo una ventina di titoli, perché questo ha l'inaspettato e amaro sapore dell'inesperienza.
The Chain è un'esclation di situazioni al limite dell'inverosimile, ma soprattutto di comportamenti tanto assurdi quanto improbabili e c'è così tanta carne al fuoco tra queste pagine che gli incendi in Amazzonia sono niente a confronto. Rapimenti, droghe, disabilità, cancro, social media, senso etico e morale, sopravvivenza, criminalità...
Tutto inizia con il rapimento della tredicenne Kylie e una telefonata a sua madre, Rachel, che per riaverla indietro dovrà pagare un riscatto di venticinquemila dollari e sequestrare a sua volta un bambino: è entrata in un anello della Catena e solo non spezzandola nessuno si farà del male.
Fin qui tutto ok, anzi le premesse per una storia ansiogena ci sono tutte, eppure sin dal principio c'è la sensazione che qualcosa non vada per il verso giusto; poliziotti uccisi e depistati con grande faciloneria, soldi trovati come se crescessero sull'albero della cuccagna, un'arsenale di armi da far invidia a Rambo, il tutto condito da una psicologia pressoché inesistente che ti porta a non provare un minimo di empatia per nessuno.
Però ci ho voluto credere. Per le prime cento pagine non ho messo a tacere quel fastidioso prurito che mi viene quando i sensi si allertano, ma la verità è una sola: per apprezzare the Chain avrei dovuto disattivare ogni connessione logica, spegnere i neuroni e prendere per buone le parole di McKinty.
Solo che non ce l'ho fatta.
Lo stile velocissimo, incalzante, quasi telegrafico (qui siamo ben oltre il dono della sintesi), non mi ha impedito di notare la brillante incoerenza dei personaggi, i modi rocamboleschi con cui uscivano da situazioni pericolosissime e di storcere il naso di fronte alla malattia di Rachel. Sì, perché Rachel ha il cancro. L'autore ha spinto il tasto "vinco facile" per commuovere il lettore e ha miseramente fallito. Non si banalizza così una malattia. Non si usa come pretesto per impietosire. Soprattutto quando Rachel, sotto chemio, ha più energie di un atleta dopato.
Superficialità è la parola chiave di the Chain. Potremmo definire questo libro una colossale americanata, ma onestamente storie con così poca credibilità rasentano il comico. Certo, è un romanzo che si legge molto in fretta, ma è sufficiente? Per me no. Non c'è suspense, non c'è mistero, non c'è dramma. E come se non bastasse il nome del fatidico colpevole è così lampante che se l'autore l'avesse rivelato senza fare tanto il vago avrebbe fatto più bella figura. Invece i suoi tentativi di depistaggio si riducono a Rachel che quando vede una ragazza con una catenina al collo pensa faccia parte della Catena. Emh... il nesso? Perché indossa una catenina... catenina... catena... no vabbe' #mariaioesco.
Infine, e questo sasso non posso non togliermelo dalla scarpa, pur non essendo una di quelle persone che fa le pulci alle traduzioni che presentano sbavature - perché so benissimo che dietro alla pubblicazione di un libro ci sono esseri umani, non macchine! - non ho potuto restare indifferente davanti alla traduzione errata di ski mask. Perché? Perché ski mask significa passamontagna, ma è stato tradotto con maschera da sci, quindi io, per trecentocinquanta pagine, mi sono immaginata questa banda di balordi che rapisce bambini per le vie di Boston travestiti da Alberto Tomba. Capite, perché tutto sembrava ancor più tragicamente comico ai miei occhi?
Però ci ho voluto credere. Per le prime cento pagine non ho messo a tacere quel fastidioso prurito che mi viene quando i sensi si allertano, ma la verità è una sola: per apprezzare the Chain avrei dovuto disattivare ogni connessione logica, spegnere i neuroni e prendere per buone le parole di McKinty.
Solo che non ce l'ho fatta.
Lo stile velocissimo, incalzante, quasi telegrafico (qui siamo ben oltre il dono della sintesi), non mi ha impedito di notare la brillante incoerenza dei personaggi, i modi rocamboleschi con cui uscivano da situazioni pericolosissime e di storcere il naso di fronte alla malattia di Rachel. Sì, perché Rachel ha il cancro. L'autore ha spinto il tasto "vinco facile" per commuovere il lettore e ha miseramente fallito. Non si banalizza così una malattia. Non si usa come pretesto per impietosire. Soprattutto quando Rachel, sotto chemio, ha più energie di un atleta dopato.
Superficialità è la parola chiave di the Chain. Potremmo definire questo libro una colossale americanata, ma onestamente storie con così poca credibilità rasentano il comico. Certo, è un romanzo che si legge molto in fretta, ma è sufficiente? Per me no. Non c'è suspense, non c'è mistero, non c'è dramma. E come se non bastasse il nome del fatidico colpevole è così lampante che se l'autore l'avesse rivelato senza fare tanto il vago avrebbe fatto più bella figura. Invece i suoi tentativi di depistaggio si riducono a Rachel che quando vede una ragazza con una catenina al collo pensa faccia parte della Catena. Emh... il nesso? Perché indossa una catenina... catenina... catena... no vabbe' #mariaioesco.
Infine, e questo sasso non posso non togliermelo dalla scarpa, pur non essendo una di quelle persone che fa le pulci alle traduzioni che presentano sbavature - perché so benissimo che dietro alla pubblicazione di un libro ci sono esseri umani, non macchine! - non ho potuto restare indifferente davanti alla traduzione errata di ski mask. Perché? Perché ski mask significa passamontagna, ma è stato tradotto con maschera da sci, quindi io, per trecentocinquanta pagine, mi sono immaginata questa banda di balordi che rapisce bambini per le vie di Boston travestiti da Alberto Tomba. Capite, perché tutto sembrava ancor più tragicamente comico ai miei occhi?
Mi dispiace tantissimo per questa occasione mancata, ma non sono riuscita davvero ad apprezzare nulla. The Chain era nato sotto forma di racconto e tale doveva restare, perché come diceva mia nonna, "Se nasci tondo non muori quadrato".
Adrian, il nostro non è un arrivederci, ma un addio.
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1 commenti:
Se c'è una cosa che non perdono, è il pressappochismo.
E questo libro ne trasuda in ogni svolta. Peccato, direi, ma in realtà neanche lo spunto mi ha mai entusiasmato...
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