30 settembre 2019

I Buoni lo Sognano i Cattivi lo Fanno di Robert I. Simon

Si chiude oggi il mese del #BBB dedicato alla casa editrice Raffaello Cortina.
Vi lascio con il mio pensiero su un saggio moooltooo interessante, dal loro catalogo non avrei potuto scegliere altro; per tutto il mese di settembre ho esplorato il buio e imparato a vedere la luce. Se amate la criminologia e cercate un testo alla portata di tutti, ma ricco di approfondimenti, questo deve finire immediatamente nella vostra #wishlist. Anzi, nel carrello Amazon!
Buona lettura 8)

I BUONO LO SOGNANO I CATTIVI LO FANNO di Robert I. Simon

| Raffaello Cortina Editore, 2013 | pag. 353 |
Nel raccontare gli efferati delitti che si è soliti attribuire ai "pazzi psicopatici", sentendosi virtuosi e immuni da cattivi pensieri, Simon non svela soltanto i misteri delle menti criminali, ma anche il lato oscuro presente in tutti gli esseri umani, uomini e donne, buoni e cattivi. Chi sono allora quei "pazzi", l'assassino di John Lennon, gli stupratori di Central Park, i serial killer sadici, gli adepti di sette apocalittiche e sataniche, ma anche i più "ordinari" genitori che picchiano e violentano i propri bambini, i preti molestatori, i professionisti che abusano delle clienti? L'autore racconta le loro storie, i loro demoni interiori, la sofferenza delle loro vittime, ma anche il modo in cui il crimine si può prevenire.
Negli Stati Uniti, ogni 22 secondi, un americano viene picchiato, accoltellato, ferito con un'arma da fuoco, stuprato o ucciso. In un'epoca in cui la violenza colpisce a caso, nessuno si sente al sicuro.
I Buoni lo Sognano i Cattivi lo Fanno è stato senza ombra di dubbio uno dei migliori #libridacomodino mai letti. L'ho tenuto a portata di mano per circa due mesi e l'ho centellinato per diversi motivi: da una parte mi affascinava, dall'altra mi incuteva una certa angoscia nonostante condivida appieno il pensiero dell'autore. Secondo Robert I. Simon la linea che divide i buoni dai cattivi è sottile, a volte labile, ma per molti è un'affermazione forte, difficile da accettare.
Eppure è così.
La violenza e l'aggressività fanno parte del nostro dna, ed è grazia alla nostra parte "cattiva" che ci siamo potuti evolvere anziché estinguere attraverso i secoli.
Oggi ci viene insegnata l'etica, la morale, ed è la stessa società in cui viviamo a definire i confini tra lecito e illecito, ma cosa succederebbe se non ci fossero regole o se queste fossero diverse? Basterebbe la nostra coscienza? No. La Storia ce lo insegna. Basti ricordare che durante il nazismo, quando giustiziare e torturare ebrei era una pratica all'ordine del giorno, tanti tedeschi che assistevano a centinaia di esecuzioni la sera tornavano a casa ed erano dei padri premurosi e dei mariti amorevoli. Cosa vuole dire? Molto semplicemente che al "male" ci si può anche abituare attraverso un meccanismo, attivato dalla nostra mente, detto"sospensione dell'empatia". A sospendere l'empatia, o a esserne totalmente privi, sono i serial killer, i criminali che forse più stuzzicano le fantasie di milioni di onesti cittadini che fruiscono regolarmente di film, programmi tv e libri che parlano di omicidi e altre forme di violenza.
Il fatto è che il "male" prolifica al buio, portarlo alla luce significa esorcizzarlo, soddisfare un impulso in modo indiretto. Perché tutti abbiamo un lato oscuro, è inutile negarlo.
In questo saggio vengono trattate le figure di psicopatici, stupratori, stalker, suicidi e vengono inoltre argomentati casi di personalità multipla, fanatismo religioso e violenza sul posto di lavoro.
Sono così tanti i fatti riportati che non ho potuto non andare ad approfondire storie che già conoscevo, ma di cui volevo sapere ancora di più. Come quella di Alexander Pichuskin, il killer della scacchiera, che uccise 49 persone, ma voleva arrivare a 64 tanti sono i quadrati del tavoliere. O quella di John Wayne Gacy, soprannominato il Killer Clown, che rapì, torturò e uccise 33 bambini/adolescenti. Per non parlare di Edmund Kemper di cui presto scoprirò tutto grazie al romanzo Viale dei Giganti.
Più di trecento pagine ricche di informazioni, analisi psicologiche, stralci di sedute psichiatriche e un messaggio sempre evidente: verbalizzare la violenza, parlarne, previene il bisogno di concretizzarla.
Un saggio avvincente come un romanzo e preciso come un'autopsia. Un trattato sulla criminologia alla portata di tutti, audace, provocatorio, intelligente. Mi ha spaventato, ma mi ha messo di fronte a tantissime realtà terribili e a considerazioni che ho condiviso nella maggior parte dei casi, alcune, lo ammetto, sono discutibili, ma la distanza tra giusto e sbagliato è forse labile quanto quella tra buoni e cattivi. D'altronde non sempre si nasce in un modo, ma lo si diventa; fortunatamente la maggior parte di noi, tutti i giorni, sceglie da che parte stare,  riconosce il male a prima vista, si sente un po' serial killer e un po' santo, ma in mezzo a questi due estremi non ha il vuoto, bensì un'infinità di sfumature che lo rende umano.
Davvero molto bello. Se vi interessa la materia un must have assoluto!
"La persona senza coscienza nelle piccole cose
sarà un farabutto in quelle grandi".
Arthur Schopenhauer
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Il Book Bloggers Blabbering

16 settembre 2019

Recensione, THE CHAIN di Adrian McKinty

Da grandi aspettative derivano grandi delusioni.
Capita, siamo lettori maturi e vaccinati e quindi sappiamo affrontare momenti come questo con dignità. Però cazzarola Adrian, questo non me lo dovevi fare!

THE CHAIN di Adrian McKinty

| Longanesi, 2019 | pag. 353 | € 19,50 |

"Mi chiamo Rachel Klein e fino a pochi minuti fa ero una madre qualunque, una donna qualunque. Ma adesso sono una vittima. Una criminale. Una rapitrice. È bastato un attimo: una telefonata, un numero occultato, poche parole. Abbiamo rapito tua figlia Kylie. Segui le istruzioni. E non spezzare la Catena, oppure tua figlia morirà. La voce di questa donna che non conosco mi dice che Kylie è sulla sua macchina, legata e imbavagliata, e per riaverla non sarà sufficiente pagare un riscatto. Non è così che funziona la Catena. Devo anche trovare un altro bambino da rapire. Come ha fatto lei, la donna con cui sto parlando: una madre disperata, come me. Ha rapito Kylie per salvare suo figlio. E se io non obbedisco agli ordini, suo figlio morirà. Ho solo ventiquattro ore di tempo per fare l'impensabile. Per fare a qualcun altro ciò che è stato fatto a me: togliermi il bene più prezioso, farmi precipitare in un abisso di angoscia, un labirinto di terrore da cui uscirò soltanto compiendo qualcosa di efferato. Io non sono così, non ho mai fatto niente di male nella mia vita. Ma non ho scelta. Se voglio salvare Kylie, devo perdere me stessa...".
Voto:

No, no, nooo, nooooo e ancora NO!
Non importa da quale prospettiva guardi questo libro, perché non ce n'è una che funzioni. Salvo giusto l'idea, geniale, tutto il resto per me è fuffa, mi meraviglio solo che l'autore abbia all'attivo una ventina di titoli, perché questo ha l'inaspettato e amaro sapore dell'inesperienza.
The Chain è un'esclation di situazioni al limite dell'inverosimile, ma soprattutto di comportamenti tanto assurdi quanto improbabili e c'è così tanta carne al fuoco tra queste pagine che gli incendi in Amazzonia sono niente a confronto. Rapimenti, droghe, disabilità, cancro, social media, senso etico e morale, sopravvivenza, criminalità... 
Tutto inizia con il rapimento della tredicenne Kylie e una telefonata a sua madre, Rachel, che per riaverla indietro dovrà pagare un riscatto di venticinquemila dollari e sequestrare a sua volta un bambino: è entrata in un anello della Catena e solo non spezzandola nessuno si farà del male.
Fin qui tutto ok, anzi le premesse per una storia ansiogena ci sono tutte, eppure sin dal principio c'è la sensazione che qualcosa non vada per il verso giusto; poliziotti uccisi e depistati con grande faciloneria, soldi trovati come se crescessero sull'albero della cuccagna, un'arsenale di armi da far invidia a Rambo, il tutto condito da una psicologia pressoché inesistente che ti porta a non provare un minimo di empatia per nessuno.
Però ci ho voluto credere. Per le prime cento pagine non ho messo a tacere quel fastidioso prurito che mi viene quando i sensi si allertano, ma la verità è una sola: per apprezzare the Chain avrei dovuto disattivare ogni connessione logica, spegnere i neuroni e prendere per buone le parole di McKinty.
Solo che non ce l'ho fatta.
Lo stile velocissimo, incalzante, quasi telegrafico (qui siamo ben oltre il dono della sintesi), non mi ha impedito di notare la brillante incoerenza dei personaggi, i modi rocamboleschi con cui uscivano da situazioni pericolosissime e di storcere il naso di fronte alla malattia di Rachel. Sì, perché Rachel ha il cancro. L'autore ha spinto il tasto "vinco facile" per commuovere il lettore e ha miseramente fallito. Non si banalizza così una malattia. Non si usa come pretesto per impietosire. Soprattutto quando Rachel, sotto chemio, ha più energie di un atleta dopato.
Superficialità è la parola chiave di the Chain. Potremmo definire questo libro una colossale americanata, ma onestamente storie con così poca credibilità rasentano il comico. Certo, è un romanzo che si legge molto in fretta, ma è sufficiente? Per me no. Non c'è suspense, non c'è mistero, non c'è dramma. E come se non bastasse il nome del fatidico colpevole è così lampante che se l'autore l'avesse rivelato senza fare tanto il vago avrebbe fatto più bella figura. Invece i suoi tentativi di depistaggio si riducono a Rachel che quando vede una ragazza con una catenina al collo pensa faccia parte della Catena. Emh... il nesso? Perché indossa una catenina... catenina... catena... no vabbe' #mariaioesco.

Infine, e questo sasso non posso non togliermelo dalla scarpa, pur non essendo una di quelle persone che fa le pulci alle traduzioni che presentano sbavature - perché so benissimo che dietro alla pubblicazione di un libro ci sono esseri umani, non macchine! - non ho potuto restare indifferente davanti alla traduzione errata di ski mask. Perché? Perché ski mask significa passamontagna, ma è stato tradotto con maschera da sci, quindi io, per trecentocinquanta pagine, mi sono immaginata questa banda di balordi che rapisce bambini per le vie di Boston travestiti da Alberto Tomba. Capite, perché tutto sembrava ancor più tragicamente comico ai miei occhi?

Mi dispiace tantissimo per questa occasione mancata, ma non sono riuscita davvero ad apprezzare nulla. The Chain era nato sotto forma di racconto e tale doveva restare, perché come diceva mia nonna, "Se nasci tondo non muori quadrato".
Adrian, il nostro non è un arrivederci, ma un addio.


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5 settembre 2019

Recensione, SADIE di Courtney Summers

Buongiorno cari lettori, oggi torno con una recensione che per molti non sarà una novità. Su instagram (@silvia_inunclick) vi tengo infatti sempre aggiornati e questa estate ho condiviso con voi tutti i miei pensieri pre, durante e post parto lettura, ma una traccia indelebile qui sul blog non potevo non lasciarla! 8)

SADIE di Courtney Summers

| Rizzoli, 2019 |

Quando il popolare conduttore radiofonico West McCray riceve una telefonata da una donna che lo implora di cercare Sadie Hunter, diciannove anni, scomparsa da alcuni mesi, l'uomo non è davvero convinto che quella sarà una storia da raccontare: è tristemente consapevole che di ragazze scomparse ce ne siano molte, troppe, ogni giorno. Ma quando viene a sapere che Sadie si è allontanata da casa dopo il brutale omicidio irrisolto della sorella Mattie, tredici anni, parte alla volta di Cold Creek, Colorado, per cercare di saperne di più.
Sadie non ha idea che la sua storia stia per diventare il soggetto di un podcast di successo seguito da una costa all'altra degli Stati Uniti. Tutto ciò che vuole è vendetta: armata di un coltello a serramanico e del suo lacerante dolore, Sadie colleziona una serie di confusi indizi che seguono le tracce dell'uomo che è convinta abbia ucciso la sorella.
Mentre West ricostruisce il viaggio di Sadie, ritrovandosi sempre più coinvolto dalla storia della ragazza e ossessionato dal pensiero di ritrovarla, un mistero inquietante comincia a prendere forma e a svelarsi. Riuscirà West a ricomporre il puzzle della verità prima che per Sadie sia troppo tardi?
Alternando le puntate del podcast alla lucida voce di Sadie, che racconta in prima persona la sua caccia all'uomo, Courtney Summers ci regala una storia struggente che resta sulla pelle ben oltre la sua ultima pagina.
Voto:

A distanza di settimane dall'aver terminato Sadie credo finalmente di averlo metabolizzato e di poterne parlare in modo molto razionale. Non appena ho sfogliato l'ultima pagina su Instagram ho fatto delle stories in cui mi dichiaravo in qualche modo confusa, divisa tra l'importante messaggio del romanzo e dal poco coinvolgimento provato in alcune parti. Confermo tutto.
Una lettura fatta di up and down dovuti in parte alla doppia narrazione.
Da una parte c'è Sadie, una ragazza senza spirito di conservazione incapace di elaborare le cose belle, perché la vita le ha sempre sbattuto in faccia solo bugie e dolore. Mattie, la sorella minore, è la sua unica fonte di speranza, l'ama senza riserve, cerca di proteggerla da ogni tipo di delusione e quando viene uccisa tutto diventa improvvisamente buio. Per lei non esiste più niente al di fuori della vendetta; il baratro si è aperto e a Sadie non importa di finirci dentro, deve solo trascinare con sé l'assassino di Mattie... un uomo che conosce fin troppo bene...
La seconda narrazione è spostata cronologicamente in avanti. Scopriamo fin dalle prime righe che di Sadie, durante questa disperata caccia all'uomo, si sono improvvisamente perse le tracce, ed è qui che l'autrice approfitta per mettere gli accenti sui tanti fatti di cronaca che stanno devastando l'America. Solo nel 2012, secondo l'FBI, le persone scomparse sono state seicentomila e cinquecentomila erano ragazzi sotto i diciotto anni. Un dato che ha dell'incredibile. Per questo finché non c'è un corpo, del sangue, o comunque uno straccio di dna, un'indagine non si può aprire. È materialmente impossibile.
Courtney Summers da quindi la parola a un noto conduttore radiofonico che decide di  raccontare la storia di Sadie attraverso dei podcast. Un'indagine atipica, in America ce ne sono tante...
Piccolo appunto. Nella versione originale questi podcast si possono ascoltare. Sono perlopiù interviste a persone vicine a Sadie e a tutti coloro che hanno incrociato, anche per poco, il suo cammino, ma onestamente leggere un qualcosa che nasce per essere in un formato audio non mi è piaciuto. Nelle parole scritte non ci sono sfumature o emozioni, è tutto un botta e risposta, ma se un romanzo nasce con una determinata peculiarità non vedo perché non debba essere mantenuta.
Infatti le due parti risultano sbilanciate. Sadie si racconta senza filtri, la sua voce è fatta di polvere, cicatrici e lacrime. I podcast (scritti) sono freddi, impersonali. Oltretutto mi è mancato un accurato approfondimento psicologico di vari personaggi e,  pur non potendo considerare il romanzo un vero e proprio thriller 1) perché l'assassino è noto fin dal principio 2) perché manca di suspense, c'è troppa staticità.
Peccato, perché il finale è davvero potente, getta luce su un'America fatta di teste basse e occhi chiusi, racconta di come il dolore possa camminare più veloce della vita stessa e ti lascia con una sensazione di angoscia e smarrimento. Dove sono questi ragazzi che spariscono dalle loro case? Com'è possibile diventare invisibili nel XXI secolo? Come si sopravvive all'incertezza?
Un romanzo destabilizzante, forse più a livello di contenuto che di stile, ma merita comunque di essere letto.

Podcast:
Se masticate bene l'inglese i podcast potete ascoltarli a questo link:
https://us.macmillan.com/podcasts/podcast/the-girls-find-sadie/

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